IL LADRO DI ANIME – Sebastian Fitzek

Voto: 4/5

Caspar si ritrova ricoverato in una clinica psichiatrica, per un'amnesia che gli impedisce di ricordare e mettere insieme tutti gli elementi che formano la sua identità. È la vigilia di Natale, c'è una tempesta di neve e tutti coloro che vi si trovano dentro restano bloccati nella clinica. In più, pare che l'ultimo paziente ricoverato sia il cosiddetto "Ladro di anime", colpevole di aver ridotto praticamente a delle amebe diverse donne, e adesso anche Sophia, dottoressa della clinica che Caspar tenterà di salvare, affrontando man mano i suoi ricordi che riaffiorano.
Vista l'ambientazione, i temi del romanzo riguardano argomenti psichiatrici. La pazzia, per farla breve. La fragilità del cervello umano, l'identità e la fuga da sé stessi. E poi la fiducia, in sé e negli altri, e la vendetta. È anche un libro pieno di enigmi, sia espliciti che impliciti. Addirittura l'ultima risposta è contenuta nei ringraziamenti, quindi è bene leggere anche quelli.

I personaggi sono ben descritti sin dall'inizio, e resi in maniera efficace anche nella pazzia: parlo in particolare di Linus. Eppure, nonostante si tratti di un thriller psicologico, nessuno mi è sembrato particolarmente approfondito da quel punto di vista.
Tra i personaggi più riusciti troviamo Bachmann, con tutti i suoi comportamenti sospetti, e Tom, nel suo essere impulsivo e stronzo. Quest'ultimo è un idiota particolarmente fastidioso, e per avere una percezione del genere è necessario che il personaggio sia ben caratterizzato, quindi complimenti a Fitzek.
Di Caspar, per ovvi motivi, emergono man mano diversi aspetti, che però riguardano sì la sua identità, ma non molto la personalità.
Sophia è un personaggio che ho trovato molto ben costruito e per certi versi sorprendente. Comunque in questo caso non si può parlare di caratterizzazione, perché è praticamente catatonica per tutto il tempo.
Alcuni personaggi, infine, li ho trovati del tutto superflui.

Lo stile di Fitzek è trascinante e coinvolgente, proprio come si confà a un buon thriller, anche se a tratti lo trovo un po' troppo banale e perfino infantile. Chissà se è colpa dell'autore o dei traduttori. In ogni caso tiene ben incollati alle pagine e mantiene viva la curiosità, e questa storia mi è parsa promettente sin dall'inizio. È inquietante, crea la giusta suspance, lascia cadere sospetti su diversi personaggi per confondere quanto basta, si interrompe nei momenti più opportuni. I fatti e i ricordi di Caspar si susseguono al giusto ritmo.
Ammetto di aver considerato, durante la lettura, quella che poi si è rivelata la soluzione dell'enigma, ma l'avevo subito esclusa e, alla fine, mi è comunque risultata sorprendente. Il finale assoluto del libro, invece, è piuttosto scontato, ma comunque apprezzabile.
Io non sono un'amante dei gialli o dei polizieschi, ma i thriller psicologici mi piacciono parecchio. Questo è il secondo romanzo che leggo di Fitzek e in entrambi i casi ho avuto l'impressione di aver trovato esattamente quello che cercavo. Quando penso "thriller psicologico" io penso "Fitzek". Finora non ho avuto il piacere di trovarne altri così soddisfacenti. Tra l'altro, questo libro fa piccoli riferimenti a personaggi del primo, per cui, se foste interessati all'autore, vi suggerisco di leggere i suoi romanzi nell'ordine in cui li ha scritti, come sto facendo io. (Il primo è La terapia.)

L'ARMINUTA – Donatella Di Pietrantonio

Voto: 3/5

Ragazzina tredicenne viene restituita alla famiglia d'origine, cui era stata sottratta da piccolissima, e deve vedersela con genitori e fratelli che non ha mai conosciuto. Com'è ovvio, quindi, oggetto della narrazione sono le dinamiche familiari, la maternità, l'amore fraterno (se vogliamo), ma anche l'adolescenza, il cambiamento, il sesso, la diversità, la non appartenenza, il rifiuto. Tutte cose che, a mio parere, vengono però raccontate o descritte in maniera piuttosto piatta e non molto originale. So che in molti hanno amato questo libro, ma io non l'ho trovato diverso da tanti altri. In più non ha un vero finale, mi ha lasciato confusa e con un senso di incompiutezza.

Nessun personaggio è particolarmente simpatico e, anzi, anche quelli che – nelle intenzioni dell'autrice – dovrebbero esserlo a me non sono piaciuti. La protagonista, la cosiddetta arminuta, "la ritornata", non ha una personalità ben definita. Non ha reazioni, sopporta senza fare nulla, ma si tratta pur sempre di un'adolescente in crisi, non solo a causa della sua età ma per motivi ben più seri, quindi è più che legittimo che resti nella sua incerta vaghezza (anche se alla fine vorrebbe far credere di no).
Il resto della sua famiglia, invece, la personalità dovrebbe averla, ma si tratta di personalità stereotipate, quelle che troviamo in qualsiasi romanzo dall'ambientazione simile. Sono tutti induriti dalle condizioni di vita difficili, pieni di disprezzo e di orgoglio deviante qb, e poi c'è il solito personaggio che, nella sua ignoranza e nella corazza con cui si difende da quell'ambiente, dovrebbe risultare simpatico e ispirare tenerezza. In questo caso si tratta della sorellina Adriana.
Quello che mi è rimasto è la solita riflessione su quanto le persone siano squallide (il maestro assoluto nel rendere lo schifo dell'umanità è Franzen, e qui non c'è nulla di lontanamente paragonabile), anche quando cercano di riscattarsi, solo per placare il senso di colpa.

Il problema fondamentale degli italiani, per me, resta sempre lo stile. Forse non riesco a rimanere obiettiva, ma è più forte di me. A parte qualche classico – pure raro – non riesco davvero ad apprezzare nessuno scrittore italiano, non so perché. Sono diversi tra loro, ma tutti cercano di dimostrare quanto sono bravi con le parole, accostandole in modi strani e presumibilmente poetici ed evocativi, ma l'effetto finale non è quello. Io vedo solo lo sforzo di colpire, che però non colpisce. Dovrebbe emozionare ma è completamente sterile, a tratti pure fastidioso. Degli stranieri leggo praticamente solo traduzioni, e trovo che i traduttori italiani scrivano molto meglio degli scrittori italiani ufficiali. Di Donatella Di Pietrantonio, purtroppo, non posso dire nulla di diverso.

QUEL CHE RESTA DEL GIORNO – Kazuo Ishiguro

Voto: 2/5

Un maggiordomo si mette in viaggio, ma in realtà questo ha poca importanza; il punto è che per tutto il tempo racconta di altri maggiordomi – e domestici in generale – e sproloquia sulle qualità che deve avere un grande maggiordomo. Informazioni ben poco utili, di questi tempi. Nel frattempo coglie l'occasione per raccontare qualche episodio sparso della sua carriera, in cui fa sfoggio della propria "dignità", la caratteristica per eccellenza di un buon maggiordomo, il quale, a quanto pare, deve annullare la propria personalità e le proprie emozioni perfino di fronte a eventi estremi e vivere in funzione delle volontà di "sua signoria", chiunque sia.
In definitiva non mi pare ci siano eventi (o anche personaggi, se è per questo) degni di nota.

A proposito dei personaggi, io non ho capito molto. Innanzi tutto non vengono descritti: non ho idea di che aspetto abbia la maggior parte di loro. Il protagonista, Stevens, parla, agisce, si comporta e si autovaluta solo come maggiordomo, non come persona, e quindi non emerge quasi nulla della sua personalità, ma solo della sua professionalità.
Un po' meglio caratterizzata è Miss Kenton, la quale invece non permette al lavoro di prendere il sopravvento sulle sue idee, o almeno tenta di impedirlo. Tutti gli altri... No, un attimo, chi sono gli altri? Ah, ecco, ci sono le "loro signorie", che ovviamente sono persone nobili e ricche, da un punto di vista sia materiale che spirituale, e hanno sempre ragione. Come potrebbe essere altrimenti?

Anche lo stile è, se così posso definirlo, da maggiordomo. Il che significa formale, elegante, molto noioso e privo di qualsiasi ironia, perfino quando il povero Stevens si sforza di farcela entrare. Mi sono annoiata e distratta fin troppo spesso, a volte mi risvegliavo all'improvviso chiedendomi di chi si stesse parlando, un po' come mi è capitato con Al Paradiso delle Signore.
In definitiva non ho capito perché tutti sembrino trovare bellissimo questo romanzo. Che cosa sarebbe bellissimo? Non c'è trama, i personaggi sono quelli che sono, lo stile non è niente di particolare, e poi a chi importa ormai di come devono essere i maggiordomi? Io ho trovato il tutto solo molto pesante.
Si dice in giro che anche il film sia meraviglioso; forse con quello avrei più fortuna.

UNA VITA COME TANTE – Hanya Yanagihara

Titolo: Una vita come tante
Autore: Hanya Yanagihara
Traduttore: L. Briasco
Copertina flessibile: 1094 pagine
Editore: Sellerio Editore (2016)
Prezzo: 20,90 €

Una vita come tante di Hanya Yanagihara è un romanzo straziante, che mi ha toccato tantissimo, ma è brutale, pieno di violenza e di dolore, non è un libro per tutti.
A dispetto del titolo, racconta una vita straordinaria, nel bene e nel male. Una vita lunga – o almeno lungamente raccontata – da cui emerge soprattutto l'impossibilità del cambiamento. Questo è il messaggio che mi è arrivato: le persone non cambiano. Non possono, in alcun modo.
Riassumere la trama sarebbe uno scempio, è un libro di cui non si può davvero parlare con chi non l'ha letto (e apprezzato). I temi sono innumerevoli. La protagonista indiscussa è la solitudine: puoi avere tutti gli amici che vuoi, ma alla fin fine sei sempre solo. Tra gli altri – per quanto asettico possa essere un elenco di questo tipo – troviamo: arte, identità, autolesionismo, depressione, disabilità in generale, autostima, fiducia e tradimento, perdono, legge e giustizia, abusi (di sostanze e di persone) e dipendenze (anche emotive), il lutto, la fine delle cose, il denaro e il suo peso nel determinare le possibilità di un individuo, la famiglia e il modo in cui plasma le persone, l'orrore della vita.
E poi l'amore: quanto è difficile amare e aiutare una persona che non ama se stessa; ma anche quanto è difficile lasciarsi amare. Il modo in cui tutti gli altri personaggi amano Jude e se ne prendono cura è commovente.

I personaggi emergono a poco a poco ma, quando lo fanno, lo fanno benissimo. Sono meravigliosi, sono mondi pieni di dettagli, di storie, sfumature, pensieri, emozioni, reazioni, convinzioni. Sono persone vere, complesse e multidimensionali.
Primo fra tutti Jude, protagonista riservato e schivo, in preda a una paura che non lo lascia mai. Jude si disprezza in un modo che spezza il cuore, si porta dietro un peso enorme che compromette la qualità di ogni attimo della sua vita. È un personaggio che ho sentito vicino, ho pianto amaramente per il suo dolore e ho provato una felicità immensa per la sua gioia.
Ho provato tenerezza e compassione anche per Willem, bellissimo e umile, dall'autostima paradossalmente bassa. Willem, l'amico di cui tutti avremmo bisogno e che nessuno ha, perché ovviamente non esiste.
Ho provato odio per JB, presuntuoso e viziato, con manie di grandezza. Tutti i personaggi hanno qualcosa di bello dentro, sono profondi e tristi. Tutti tranne JB. (E ovviamente quelli spregevoli, abusanti e inclassificabili.)
Ho provato solidarietà e pena per Harold e Andy, mi sono sentita impotente insieme a loro. Mi sono scoraggiata un po' per tutti, che tra l'altro non fanno una bella fine. Non mi capita spesso di provare tutte queste cose per tanti personaggi diversi.

Lo stile dell'autrice è chiaro e scorrevole, non è banale e coinvolge parecchio, ti assorbe, anche se alla prima lettura alcuni salti temporali mi avevano messo in difficoltà, così come i cambiamenti improvvisi dei tempi verbali e della voce narrante.
I dialoghi sono buoni, all'inizio forse troppo seri, non c'è traccia di umorismo. Più avanti, qualche battuta divertente non manca, ma nel complesso c'è ben poco da ridere.
Le descrizioni sono ottime, minuziosamente dettagliate, molto concrete. L'autrice fa uso di similitudini molto efficaci, a volte bellissime, altre disgustose. In alcuni momenti avrei voluto che non fossero così buone, viste le cose che succedono.
Una vita come tante è una lettura da cui si esce provati. Ho pianto tutto il tempo, ho provato molto dolore. Un dolore sordo nella prima metà, che diventa acuto, quasi insopportabile a tratti, nella seconda. Non è un libro che consiglierei a chiunque, ma a me ha dato tanto e la seconda lettura mi ha distrutto anche più della prima. So che, nonostante la mole, lo rileggerò ancora.

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