Titolo: Trilogia della città di K.
Autore: Agota Kristof
Traduttore: A. Marchi, V. Ripa di Meana, G. Bogliolo
Copertina flessibile: 384 pagine
Editore: Einaudi (2014)
Prezzo: 11,05 €
Agota Kristof è una delle mie autrici preferite, e Trilogia della città di K. è considerato il suo capolavoro. Personalmente ho preferito altre sue opere, ciò non toglie che questo libro sia geniale e molto, molto particolare.
Innanzi tutto, i temi sono ricorrenti nelle opere dell'autrice:
- Solitudine e disperazione. Sarà per questo che la amo. La solitudine permea ogni scritto della Kristof, e quando termino un suo libro mi sento veramente una disperata. Per me è un pregio, ma capisco se a questo punto vorrete evitare i suoi libri!(Ci sarebbe anche la guerra, ma facciamo che è già inclusa in questo punto.)
- Famiglia. Nella Trilogia troviamo diversi esempi di famiglia, e non mi pare ce ne sia una sana e unita. Sono tutte spezzate, tutte disfunzionali, tutte malate. Cosa che del resto si può dire praticamente di ogni singolo personaggio.
- Educazione, addestramento, coping. Nel primo libro, Il grande quaderno, l'addestramento autoimposto e realizzato dai due gemelli protagonisti è tutto. Si tratta di due bambini che si autoinfliggono sofferenze per abituarsi alla vita e, del resto, la realtà intorno a loro non perde occasione di mostrarsi dura come se l'aspettano.
- Amore. Sì, è molto difficile scovarlo, ma c'è. Sebbene anche in questo caso sia qualcosa di – perlopiù – morboso e malato e che in più di un caso porti alla morte. Allegria.
I personaggi sono delle persone orribili. E quindi verosimili. La caratterizzazione è scarsa, si riportano solo elenchi di azioni e avvenimenti. I personaggi sono le somme delle loro storie e dei loro dolori. Scandagliarne la psicologia sarebbe una perdita di tempo, perché l'importante sono i fatti, la verità.
I due protagonisti sembrano tutto sommato persone normali, per quanto indurite dalla vita. E come loro ce ne sono poche altre. Quasi tutti gli altri invece sembrano difettosi, perversi o pazzi, ognuno a modo suo. I bambini sono tutti precoci, intelligentissimi e disperati già all'età di sei, sette anni.
Aggiungerei che a un certo punto la stessa identità dei personaggi viene messa in discussione, un motivo in più per non perdere troppo tempo nell'analisi della psicologia. Perché farlo sarebbe veramente una presa in giro.
Io adoro lo stile dell'autrice. È molto diretto, asciutto, conciso, quasi freddo. Giorgio Manganelli ha definito quella di Agota Kristof «una prosa di perfetta, innaturale secchezza, una prosa che ha l'andatura di una marionetta omicida». Un'immagine che calza a pennello, non saprei come renderla meglio di così. È tagliente, è come un'arma affilata e letale, tanto più che il contenuto non è proprio leggerino, perciò la freddezza con cui viene veicolato è impressionante. Fa sembrare normale la perversione. (E non lo è, forse?)
Le descrizioni e i dialoghi sono essenziali, come un po' tutto il resto. Non ci sono sprechi di parole. Forse è solo perché la Kristof scriveva in una lingua che non era la sua, ma alla fine il risultato è di un'efficacia disarmante.
Nel bene o nel male, questo libro lascia il segno.
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