AL PARADISO DELLE SIGNORE – Émile Zola

Tre poveri orfani arrivano a Parigi, la sorella maggiore cerca lavoro al Paradiso delle Signore. Non so che cosa succeda dopo perché ho abbandonato la lettura. Di conseguenza non sono in grado di commentare adeguatamente il romanzo, scriverò solo qualche lamentela.
Sono riuscita a seguire solo Denise, quando lei non c'era io perdevo il filo del discorso, non capivo più cosa stavo leggendo. Non sono riuscita nemmeno a immaginare i personaggi, o a collegarli ai rispettivi nomi, li confondevo tra loro.
In generale la lettura – per quel poco che ho resistito, cioè due capitoli e mezzo – mi è risultata difficile, non perché la scrittura sia complicata ma proprio perché non riuscivo a concentrarmi sul contenuto della storia. Dopo ogni sessione di lettura non sarei stata nemmeno in grado di riassumere cosa avevo appena letto. Insomma, mi sono annoiata molto.
Forse un giorno ci riproverò, ma al momento per me è NO.

GLI ANNI DELLA LEGGEREZZA – Elizabeth Jane Howard

Voto: 3/5

Famiglia super numerosa si riunisce per l'estate e... basta. In realtà non c'è una vera trama, leggendo non facciamo altro che spiare la quotidianità di tutte queste persone, minacciata dalla possibilità che scoppi la guerra, ma nel frattempo non succede granché. Non è un difetto: anche se la trama non è delle più emozionanti, la lettura è molto piacevole e coinvolgente.
Protagonista della storia è la famiglia, nel caso specifico una famiglia molto numerosa che tuttavia non sembra pesare a nessuno. Sotto sotto, i suoi membri covano rancore e risentimento, eppure nessuno odia gli altri, nessuno sente il bisogno di fuggire e darsi alla macchia. Tranne forse Sid che, però, non fa parte della famiglia Cazalet.
Insieme alla famiglia – una famiglia di questo tipo, che vive negli anni '30-'40 –, inevitabilmente tocca affrontare il matrimonio, i compromessi, l'opportunismo, l'etichetta, il dovere, l'amore, la sessualità e in generale il rapporto con il corpo. E, visto il periodo storico, la guerra e la paura.
I personaggi di questa storia sono, sin dalle prime pagine, disegnati talmente bene che ho avuto l'impressione di conoscerli e, nonostante siano un bel po', non ho incontrato nessuna difficoltà a riconoscerli o a ricordarmi di loro, se non in rari casi (ma erano le domestiche). Alcuni personaggi, e parlo soprattutto dei bambini, sono divertenti e mi hanno fatto sorridere più volte, almeno nella prima parte, mentre episodi con solo adulti li ho trovati più noiosi. Visto il numero, comunque, è piuttosto difficile fare un'analisi completa dei personaggi.
Partiamo dalla famiglia di Hugh, il più interessante e simpatico dei fratelli. La coppia Hugh-Sybil è quella meno triste. Sembra che si amino, anche se hanno qualche problema di comunicazione che potrebbe essere facilmente risolvibile, ma loro non lo risolvono. Neanche ci provano, perché non se ne rendono conto. Nel complesso, però, il loro matrimonio è felice o almeno sensato, rispetto agli altri. Anche i loro figli sembrano relativamente normali, anche se Polly sembra auto-destinarsi a una vita da gattara.
Molto peggio è messa la famiglia di Edward. Il suo matrimonio con Villy è penoso, ma del resto a essere penoso è lui. Un personaggio davvero viscido e disgustoso, anche se certi avvenimenti restano in sospeso e non ho capito perché; io avrei voluto conoscere l'evoluzione della situazione. Come se non bastasse il suo viscidume, ha anche dei figli antipatici quasi quanto lui. Louise che fa la leader e "si sente sperta", come si suol dire dalle mie parti; Teddy, che io personalmente prenderei a sprangate sui denti, arrogante e prepotente come il padre, anche se in maniera più infantile. Lydia alla fin fine si salva o almeno, vista la sua età, le concedo il beneficio del dubbio: potrebbe sempre migliorare. In tutto questo la povera Villy mi ha fatto molta pena, con un marito e dei figli del genere. Ci credo poi che si deprime.
Sulla famiglia di Rupert non c'è molto da dire. L'unico personaggio degno di nota è Clary, che io ho trovato commovente e che è il mio personaggio preferito in assoluto, con la sua solitudine e il suo desiderio di piacere, di essere indispensabile per il padre, di essere amata.
Resta Rachel, e onestamente non ho capito se mi piace o no. L'amore tra lei e Sid mi è sembrato il più autentico, ma lei è eccessivamente altruista. Non che sia un male, ma gli eccessi in genere non mi piacciono. Se l'altruismo ti fa mettere da parte la tua vita e le persone che tengono a te, magari stai facendo del bene, ma stai facendo anche del male.
Ci sarebbe poi la famiglia di Jessica, sorella di Villy, ma anche qui non mi pare ci sia molto da dire. Mi è piaciuto Christopher, che si sforza di essere buono e ha una coscienza. Non mi è piaciuta per niente Angela, ma se ne parlassi dovrei insultarla, quindi mi fermo qui.
Quello che sottolineerei, in tutto questo, è che, a parte Hugh, nessuno mi ha dato la sensazione di amare i propri figli. Del resto è comprensibile, e anche molto verosimile.
Come ho detto all'inizio, ho trovato lo stile molto scorrevole e coinvolgente e, soprattutto nelle prime pagine, mi è sembrato di guardare un episodio di Downton Abbey. La serie non mi è mai piaciuta in realtà, quindi non è un paragone molto azzeccato perché invece questo libro, nel complesso, mi ha abbastanza soddisfatto. Mi ha fatto riflettere soprattutto sull'amore familiare, che per me è una cosa inesistente. Mi sembra davvero assurdo che possano esistere famiglie in cui tutti siano così contenti di stare insieme. E mi ha fatto riflettere anche su come crescendo si vada peggiorando, su come il dolore si trasformi in cattiveria. Parlo soprattutto di Clary, personaggio in cui, se non si fosse capito, un po' mi rivedo.
Devo dire purtroppo che, nonostante tutto, a volte ho perso il filo del discorso e non capivo più di quale personaggio si stesse parlando, e che ho trovato la parte finale un po' noiosa. Sono contenta di aver finito, ho anche impiegato un bel po' per leggerlo. Nel complesso mi è piaciuto, lo ribadisco, ma mi sa tanto che mi fermo qui. L'idea di leggere il resto della saga un po' mi stanca.

NIMAL KINGDOM - Ivano Mingotti

Voto: 1/5

Partiamo dal fatto che la trama di questo libro non esiste. Non succede letteralmente nulla. Soltanto nella parte finale c'è un evento degno di nota, prima niente di niente. È il racconto delle giornate vuote e inconcludenti del protagonista, Dino, condito dalle descrizioni di altri personaggi che comunque non hanno nulla di interessante. Ci sono dei momenti in cui quasi sembra che voglia succedere qualcosa, o almeno che ci sia qualcosa da scoprire dietro tutti quei discorsi inutili, invece tutto resta vago fino alla fine, e non succede niente nemmeno lì. Boh.
C'è anche un punto in cui Dino dice qualcosa come: non posso mica mettermi a descrivere ogni attimo di una vita come la vostra, che è una schifezza eccetera eccetera. Peccato sia esattamente quello che fa per tutto il tempo. Descrivere le sue giornate noiosissime e vuote.
Il tema centrale dovrebbe essere l'omofobia, il razzismo in generale, ma è trattato in maniera fin troppo superficiale anche quello. Sembra solo accennato di tanto in tanto, non è una presenza costante e scomoda come dovrebbe essere. Insomma, prendete le vostre giornate più noiose, magari quelle domeniche in cui non fate altro che grattarvi e inebetirvi davanti al computer o alla tv, mettetele insieme e avrete scritto un libro come questo.
I personaggi non sono che delle caricature, non ce n'è uno che abbia un carattere. Anche perché Dino, che racconta in prima persona, non sopporta nessuno e quindi figuriamoci se si mette a parlare di qualcuno in maniera abbastanza approfondita da farlo sembrare umano.
Dino si crede divertente ma le sue battute non fanno ridere manco i polli. E, quel che è peggio, dichiara la propria ironia. Fa ironia e subito dopo dice «ve l'ho detto che sono ironico, no?». Caro il mio Dino, l'ironia dichiarata smette di essere ironia, e inoltre i lettori non sono così cretini da non capirlo da soli, se sei ironico.
Non si capisce che età abbia esattamente, ma di sicuro è molto giovane e si vanta di esserlo – come se stare tutto il tempo su YouTube o YouPorn, oppure usare certi intercalari tipo "bella zio" e "fighi", lo rendesse un furbacchione – e parla degli ultratrentenni come se fossero dei vecchi rimasugli dell'età della pietra. Più che giovane a me è sembrato molto infantile. È un bamboccio viziato che si lamenta di tutte le ingiustizie che subisce, che in sostanza sono i rimproveri della mamma. Nemmeno quando viene picchiato dai bulli si lamenta tanto. Non fa un cavolo di niente tutto il giorno, a parte sputare disprezzo contro tutti e sentirsi migliore degli altri, sulla base di nulla di concreto.
A sentire lui, tutte le persone che lo circondano sono grasse e brutte come la morte e, anche al di là del giudizio estetico, parla di chiunque con disprezzo, non c'è una sola persona che rispetti o a cui riconosca una qualche qualità. E non si capisce nemmeno quale sia il suo atteggiamento nei confronti dei temi trattati. È omofobo? È gay? Il suo amico è gay o no? E deve chiedergli scusa per cosa? Non si capisce.

Io ammetto di essere prevenuta nei confronti degli scrittori italiani, eppure quando ho iniziato a leggere Nimal Kingdom ho pensato che fosse stranamente piacevole. Purtroppo ho cambiato idea molto presto. Ho trovato anche diversi errori grammaticali ma, forse, quello che più mi ha infastidito è stato l'uso sconsiderato del dialetto: ci può stare anche benissimo, ma in questo caso è davvero eccessivo, almeno per una persona che non è di quelle parti. E poi le bestemmie. A me le bestemmie danno fastidio, e so che non è così per tutti. But still.

IL METODO DI RESPIRAZIONE - Stephen King

Voto: 2/5

Si tratta di una storia dentro un'altra storia, quindi le trame sono due. La storia contenitore è quella di un uomo anziano, un certo David, che accede a una specie di club di cui sembra non capire molto. L'altro è il racconto di uno dei membri del club, tale dottor McCarron, e riguarda una sua paziente incinta a cui lui insegnò il metodo di respirazione, come da titolo.
Tutti i personaggi mi sono sembrati vaghi e piatti, non c'è caratterizzazione, con l'eccezione della ragazza gravida, Sandra Stansfield. Anche nel suo caso, però, viene solo detto che si tratta di una ragazza interessante, forte, determinata, ma personalmente non l'ho percepito in nessuna scena e non ho capito perché e come lei susciti una tale ammirazione in McCarron.
Anche nella storia contenitore, non si capisce perché David vada al club, quale piacere ne tragga o che tipo di rapporto abbia con gli altri membri, anche dopo una frequentazione decennale. Sua moglie poi sembra una macchietta messa lì tanto per creare qualche momento di leggerezza per staccare da tutto il resto, almeno per poche righe.
Quello che provo nei confronti di questo racconto è molto vago e confuso perché, da una parte, gravidanza e maternità sono tra gli argomenti che trovo meno interessanti al mondo; dall'altra, però, il racconto è scritto in maniera molto scorrevole e coinvolgente, quindi tutto sommato mi è piaciuto, mi ha incuriosito, mi ha fatto porre delle domande mantenendo la suspence sufficientemente a lungo. Il problema è che le mie domande non hanno trovato mai risposta, nemmeno alla fine.
Il finale (della storia contenitore) mi ha deluso tantissimo, è troppo vago e sconclusionato, e anche quello del racconto di McCarron ha avuto il potere di rovinare tutto il resto. La storia, come ho detto, era stata fino a quel punto abbastanza coinvolgente, ma la fine è talmente assurda e inverosimile che all'improvviso, alla luce di quella, tutto il racconto mi è sembrato brutto.
L'unica cosa positiva sono forse le atmosfere, che a tratti ho trovato quasi lovecraftiane e che all'inizio mi hanno ricordato un po' Il club dei suicidi di Stevenson. In ogni caso, come chiusura di Stagioni diverse mi ha davvero deluso, e non a caso è l'unico racconto da cui non sia stato tratto un film (a quanto ne so).


In definitiva Stagioni diverse mi è piaciuto, è una lettura che consiglio e non solo agli amanti di King. Non si tratta di racconti horror, ma in ognuno di essi c'è qualcosa di orrido (soprattutto in Un ragazzo sveglio, che è davvero inquietante). E poi King scrive bene, e già solo per questo leggerlo è un piacere.

IL CORPO - Stephen King

Voto: 3/5

La vicenda è quella di quattro ragazzini dodicenni – Gordie, Chris, Teddy e Vern – che si avventurano alla ricerca del corpo che dà il titolo al racconto. In realtà non succede quasi niente, è solo il racconto di una lunga passeggiata, costellata da piccoli avvenimenti che sembrano voler solo riempire spazio. La trama non è quindi molto ricca, ma i temi toccati sono importanti. Tanto per cominciare la morte, guardata peraltro con occhi di soli dodici anni. La famiglia, che assume un ruolo importantissimo: la famiglia di ognuno dei quattro ragazzini ha quasi un ruolo più importante del ragazzino stesso, è caratterizzata meglio, è indagata più a fondo. E insieme alle dinamiche familiari vengono fuori i pregiudizi, la diffidenza verso qualcuno solo perché è figlio o fratello di qualcun altro. Ordinaria amministrazione, insomma. Poi c'è l'amicizia, che dovrebbe essere la protagonista assoluta di questo racconto ma, a essere sincera, a me è sembrata trattata solo in modo marginale, anche se a volte commovente. La cosa più interessante è la visione negativa, quasi tragica che ne ha Chris.

I tuoi amici, loro ti tirano giù, Gordie. Non lo sai? Sono come quelli che ti annegano attaccandosi alle gambe. Non puoi salvarli. Puoi solo annegare con loro.

Infine la perdita dell'innocenza, che in realtà è strettamente collegata a tutto il resto.
I personaggi in generale li ho trovati poco caratterizzati, anonimi, a parte Chris che è decisamente il più interessante. Chris ha sfaccettature diverse, è pieno di contraddizioni, è un vero essere umano, non solo un insieme di parole sulla pagina. È l'unico che abbia un'anima che non resta intrappolata nella carta.
Gli altri, come ho detto, sembrano caratterizzati più dalla descrizione delle loro famiglie, mentre le personalità sono piatte. Si percepisce lo sforzo di renderli vivi, a tratti, ma per quanto mi riguarda è stato uno sforzo inutile.
Ho letto Il corpo dopo aver visto due volte il film Stand by me, che ho trovato bellissimo, e forse per questo il racconto mi ha un po' deluso. Me lo aspettavo altrettanto bello e invece l'ho trovato noioso, ho avuto davvero difficoltà a seguirlo. Anche i sentimenti, di cui dovrebbe essere ricco – la paura in primis –, io non li ho sentiti. Li ho letti, li ho visti se vogliamo, ma non li ho provati insieme a Gordie e compagnia bella. L'unica eccezione continua a restare Chris, il solo che mi abbia davvero commosso, a cui io abbia voluto bene.
A un certo punto ho pensato che forse proprio il fatto che non succedesse nulla fosse il bello del racconto, perché è la normalità che viene raccontata, ma credo di aver cambiato di nuovo idea dopo. Ero troppo annoiata.

Anche Il corpo fa parte della raccolta Stagioni diverse e, come ho scritto un minuto fa, ne è stato tratto il film Stand by me, che consiglio assolutamente di vedere.

UN RAGAZZO SVEGLIO - Stephen King

Voto: 4/5

Due psicopatici – il tredicenne Todd Bowden e il vecchio Kurt Dussander, alias Arthur Denker – stringono una strana amicizia, se così possiamo chiamarla: si tratta in realtà di un rapporto basato su un interesse comune, peraltro inquietante, ma soprattutto su ricatti e giochi di potere, su azioni gradualmente sempre più terribili che, per fortuna, almeno si ritorcono contro i colpevoli. Anche in questo secondo racconto di Stagioni diverse, quindi, torna prepotentemente il tema della libertà. Anche se il punto è più che altro la sua assenza.
Il "grande interesse" osannato da un'insegnante di Todd è la molla che dà avvio alla vicenda, ma nel caso di Todd si tratta di un interesse inquietante e morboso per qualcosa che dovrebbe causare solo orrore. Con "grande interesse" io ho letto questa storia, ma ammetto che quello di un unico, grande interesse che ingloba la nostra vita e la nostra personalità in un certo senso mi pare un mito un po' riduttivo e troppo idealista.
Ci sono poi la violenza – a volte completamente gratuita, quasi fuori luogo –, la tortura, la fragilità della psiche umana. Psiche che vediamo infatti sgretolarsi nel corso dell'evoluzione (o involuzione, dal mio punto di vista) di entrambi i protagonisti.
Il racconto parte subito con una descrizione di Todd Bowden, quella di un comune tredicenne che, tuttavia, per qualche motivo mi è risultato subito antipatico, all'inizio senza un vero motivo. King è stato bravo a caratterizzarlo attraverso piccole cose che sin dall'inizio mi hanno fatto venire voglia di prenderlo a pugni sui denti.
A poco a poco – ma neanche tanto lentamente –, da antipatico Todd diventa proprio insopportabile, con quel suo interesse morboso, quel modo di fare viscido, borioso e insistente, che diventa quasi un disturbo ossessivo compulsivo, e quel sorriso inopportuno da pazzo. E tale rimane fino all'ultimo rigo del racconto. Letteralmente fino all'ultimo rigo.
Dussander, invece, nonostante si scoprano presto particolari disgustosi del suo passato, all'inizio sembra quasi normale, o almeno non mi ha destato la stessa antipatia del ragazzo. Sembra quasi una vittima, fino a un certo punto. Col progredire della storia, però, cominciano a venire (di nuovo) fuori i lati di lui che lo rendono l'essere disgustoso che è, e alla fine rimane il dubbio: quale dei due protagonisti è il peggiore? Io, se non fosse ancora abbastanza chiaro, li ho trovati entrambi disgustosi, orridi, insopportabili. Mi hanno ispirato solo odio e la stessa violenza che loro stessi usano, e nonostante ciò sono "bei" personaggi, proprio perché sono caratterizzati talmente bene da suscitare sensazioni così forti, seppur spiacevoli. Mi hanno fatto paura, come non è riuscito a fare Pennywise, per fare un esempio a caso. E la cosa peggiore è che mi hanno fatto paura nella loro umanità, come potrebbe farmi paura qualsiasi essere umano, per il semplice fatto che quello che c'è nelle persone è insondabile. Lo stesso King lo dice nel racconto: un essere umano non può mai sapere tutto quello che c'è nel cuore di un altro essere umano. Persone così sono in mezzo a noi e nemmeno lo sappiamo: è questo che fa paura.
Infine, un personaggio minore ma degno di nota, in quanto secondo me poco credibile, è quello di Ed French, responsabile dell'orientamento nella scuola di Todd. Il suo comportamento non mi è sembrato verosimile; non so come funzionino le cose altrove, ma in Italia troverei inopportuno un responsabile dell'orientamento che, a distanza di anni, si vada a immischiare nelle storie di un ex alunno.
A differenza che nel primo racconto, qui lo stile di King è il solito, anche con la solita abitudine delle parentesi fastidiose, soprattutto nella parte finale. A parte quello, è coinvolgente, scorrevole e chiaro, come sempre.
La lettura, in generale, mi ha alquanto disturbato. Di King ho già letto diversi romanzi e racconti, ma nessuno prima d'ora mi aveva fatto questo effetto. Trovo che a un certo punto si sia dilungato fin troppo, credo che il racconto potesse benissimo essere un po' più breve e trasmettere comunque perfettamente il messaggio. Il finale, invece, è improvvisamente sbrigativo, ma forse l'intenzione dell'autore era proprio quella di non renderlo troppo esplicito.
Una curiosità carina è che nella storia si accenna a Andy Dufresne, un piccolo particolare che lega tra di loro i primi due racconti dell'antologia. Immagino ce ne siano anche negli altri due, che non ho ancora letto. Lo scoprirò presto.

Come già detto, il racconto fa parte dell'antologia Stagioni diverse, e anche da questo è stato tratto un film, L'allievo.

RITA HAYWORTH E LA REDENZIONE DI SHAWSHANK - Stephen King

Voto: 4/5

La storia è quella di un detenuto o, meglio, di più detenuti o, meglio ancora, di una detenzione. Ma non racconta tanto le vicende, quando le persone. Per la precisione è Red, prigioniero storico del carcere di Shawshank, a raccontare Andy Dufresne, altro particolarissimo detenuto – e indirettamente sé stesso, come ammette verso la fine del racconto.
In Andy Dufresne c'è un mondo intero, o forse più di uno, tanti da farlo sembrare assurdo a tratti. È come se dentro di lui ci fosse troppo, e leggendo ci sentiamo delle nullità, perché noi comuni mortali non siamo così tanto.
Il tema fondamentale del racconto è quello della libertà, associato a quello dell'abuso di potere. Le parti che mi hanno fatto più male sono quelle in cui l'autore mette in risalto questo legame indissolubile tra una cosa e l'altra: abuso di potere significa inevitabilmente privare l'altro della sua personalità, della sua vita, della sua libertà. Che in prigione è già alquanto limitata, direi: è praticamente convertita in schiavitù. Nonostante ciò, la libertà permea tutto il racconto, tanto che gli altri temi sembrano quasi accessori di quell'unica protagonista indiscussa: il desiderio (di libertà), la speranza (nella libertà), la pazienza (di aspettarla), la perseveranza (nel costruirla), ma anche la rassegnazione alla propria condizione e l'evasione, non tanto fisica quanto mentale, perché quella del pensiero è davvero l'unica libertà che rimane. Infine, la libertà vera, quella che tutti noi potremmo avere se solo riuscissimo a capire come gestirla, che cosa farne, se ci mettessimo in testa che possiamo fare qualsiasi cosa. Invece lo ignoriamo perché forse, in un certo senso, è più comodo adeguarci e lamentarci.
Personalmente ho avuto la sensazione che qualcuno mi sbattesse in faccia una verità che non riesco ad assecondare, e mi sono sentita una codarda.
I personaggi sono tutti dipinti in modo abbastanza preciso, ma Andy Dufresne è letteralmente l'argomento del racconto e, in quanto tale, unico personaggio analizzato, indagato, scandagliato fino alle più profonde rughe della sua anima. Ripeto: a tratti l'ho trovato assurdo, nel senso che ho serie difficoltà a credere che nervi così saldi, una forza di volontà e una perseveranza simili possano esistere in esseri umani in carne e ossa. Ma tutto sommato risulta verosimile, e alla fine è questo che conta.
Personaggio molto importante, almeno nella mia visione delle cose, è il generico "uomo istituzionalizzato", anche poco citato (un paio di volte in totale, se non sbaglio). Anche questo mi ha fatto sentire in colpa, per tornare al discorso di prima. Perché un po' tutti siamo, se non istituzionalizzati, almeno troppo "socializzati", e la cosa peggiore è che ci crediamo liberi.
In genere apprezzo molto lo stile di King, a parte il suo vizio di spezzettare le frasi con parentesi fuori luogo (che qui non si manifesta, comunque), ma in questo caso l'ho trovato particolarmente soporifero. In ogni caso, di sicuro il racconto non è scritto male, anzi, è chiaro e dettagliato quanto basta. Purché non ci si distragga quando compaiono nuovi nomi.


Il racconto fa parte dell'antologia Stagioni Diverse e ne è stato tratto il film Le ali della libertà.