IL LADRO DI ANIME – Sebastian Fitzek

Voto: 4/5

Caspar si ritrova ricoverato in una clinica psichiatrica, per un'amnesia che gli impedisce di ricordare e mettere insieme tutti gli elementi che formano la sua identità. È la vigilia di Natale, c'è una tempesta di neve e tutti coloro che vi si trovano dentro restano bloccati nella clinica. In più, pare che l'ultimo paziente ricoverato sia il cosiddetto "Ladro di anime", colpevole di aver ridotto praticamente a delle amebe diverse donne, e adesso anche Sophia, dottoressa della clinica che Caspar tenterà di salvare, affrontando man mano i suoi ricordi che riaffiorano.
Vista l'ambientazione, i temi del romanzo riguardano argomenti psichiatrici. La pazzia, per farla breve. La fragilità del cervello umano, l'identità e la fuga da sé stessi. E poi la fiducia, in sé e negli altri, e la vendetta. È anche un libro pieno di enigmi, sia espliciti che impliciti. Addirittura l'ultima risposta è contenuta nei ringraziamenti, quindi è bene leggere anche quelli.

I personaggi sono ben descritti sin dall'inizio, e resi in maniera efficace anche nella pazzia: parlo in particolare di Linus. Eppure, nonostante si tratti di un thriller psicologico, nessuno mi è sembrato particolarmente approfondito da quel punto di vista.
Tra i personaggi più riusciti troviamo Bachmann, con tutti i suoi comportamenti sospetti, e Tom, nel suo essere impulsivo e stronzo. Quest'ultimo è un idiota particolarmente fastidioso, e per avere una percezione del genere è necessario che il personaggio sia ben caratterizzato, quindi complimenti a Fitzek.
Di Caspar, per ovvi motivi, emergono man mano diversi aspetti, che però riguardano sì la sua identità, ma non molto la personalità.
Sophia è un personaggio che ho trovato molto ben costruito e per certi versi sorprendente. Comunque in questo caso non si può parlare di caratterizzazione, perché è praticamente catatonica per tutto il tempo.
Alcuni personaggi, infine, li ho trovati del tutto superflui.

Lo stile di Fitzek è trascinante e coinvolgente, proprio come si confà a un buon thriller, anche se a tratti lo trovo un po' troppo banale e perfino infantile. Chissà se è colpa dell'autore o dei traduttori. In ogni caso tiene ben incollati alle pagine e mantiene viva la curiosità, e questa storia mi è parsa promettente sin dall'inizio. È inquietante, crea la giusta suspance, lascia cadere sospetti su diversi personaggi per confondere quanto basta, si interrompe nei momenti più opportuni. I fatti e i ricordi di Caspar si susseguono al giusto ritmo.
Ammetto di aver considerato, durante la lettura, quella che poi si è rivelata la soluzione dell'enigma, ma l'avevo subito esclusa e, alla fine, mi è comunque risultata sorprendente. Il finale assoluto del libro, invece, è piuttosto scontato, ma comunque apprezzabile.
Io non sono un'amante dei gialli o dei polizieschi, ma i thriller psicologici mi piacciono parecchio. Questo è il secondo romanzo che leggo di Fitzek e in entrambi i casi ho avuto l'impressione di aver trovato esattamente quello che cercavo. Quando penso "thriller psicologico" io penso "Fitzek". Finora non ho avuto il piacere di trovarne altri così soddisfacenti. Tra l'altro, questo libro fa piccoli riferimenti a personaggi del primo, per cui, se foste interessati all'autore, vi suggerisco di leggere i suoi romanzi nell'ordine in cui li ha scritti, come sto facendo io. (Il primo è La terapia.)

L'ARMINUTA – Donatella Di Pietrantonio

Voto: 3/5

Ragazzina tredicenne viene restituita alla famiglia d'origine, cui era stata sottratta da piccolissima, e deve vedersela con genitori e fratelli che non ha mai conosciuto. Com'è ovvio, quindi, oggetto della narrazione sono le dinamiche familiari, la maternità, l'amore fraterno (se vogliamo), ma anche l'adolescenza, il cambiamento, il sesso, la diversità, la non appartenenza, il rifiuto. Tutte cose che, a mio parere, vengono però raccontate o descritte in maniera piuttosto piatta e non molto originale. So che in molti hanno amato questo libro, ma io non l'ho trovato diverso da tanti altri. In più non ha un vero finale, mi ha lasciato confusa e con un senso di incompiutezza.

Nessun personaggio è particolarmente simpatico e, anzi, anche quelli che – nelle intenzioni dell'autrice – dovrebbero esserlo a me non sono piaciuti. La protagonista, la cosiddetta arminuta, "la ritornata", non ha una personalità ben definita. Non ha reazioni, sopporta senza fare nulla, ma si tratta pur sempre di un'adolescente in crisi, non solo a causa della sua età ma per motivi ben più seri, quindi è più che legittimo che resti nella sua incerta vaghezza (anche se alla fine vorrebbe far credere di no).
Il resto della sua famiglia, invece, la personalità dovrebbe averla, ma si tratta di personalità stereotipate, quelle che troviamo in qualsiasi romanzo dall'ambientazione simile. Sono tutti induriti dalle condizioni di vita difficili, pieni di disprezzo e di orgoglio deviante qb, e poi c'è il solito personaggio che, nella sua ignoranza e nella corazza con cui si difende da quell'ambiente, dovrebbe risultare simpatico e ispirare tenerezza. In questo caso si tratta della sorellina Adriana.
Quello che mi è rimasto è la solita riflessione su quanto le persone siano squallide (il maestro assoluto nel rendere lo schifo dell'umanità è Franzen, e qui non c'è nulla di lontanamente paragonabile), anche quando cercano di riscattarsi, solo per placare il senso di colpa.

Il problema fondamentale degli italiani, per me, resta sempre lo stile. Forse non riesco a rimanere obiettiva, ma è più forte di me. A parte qualche classico – pure raro – non riesco davvero ad apprezzare nessuno scrittore italiano, non so perché. Sono diversi tra loro, ma tutti cercano di dimostrare quanto sono bravi con le parole, accostandole in modi strani e presumibilmente poetici ed evocativi, ma l'effetto finale non è quello. Io vedo solo lo sforzo di colpire, che però non colpisce. Dovrebbe emozionare ma è completamente sterile, a tratti pure fastidioso. Degli stranieri leggo praticamente solo traduzioni, e trovo che i traduttori italiani scrivano molto meglio degli scrittori italiani ufficiali. Di Donatella Di Pietrantonio, purtroppo, non posso dire nulla di diverso.

QUEL CHE RESTA DEL GIORNO – Kazuo Ishiguro

Voto: 2/5

Un maggiordomo si mette in viaggio, ma in realtà questo ha poca importanza; il punto è che per tutto il tempo racconta di altri maggiordomi – e domestici in generale – e sproloquia sulle qualità che deve avere un grande maggiordomo. Informazioni ben poco utili, di questi tempi. Nel frattempo coglie l'occasione per raccontare qualche episodio sparso della sua carriera, in cui fa sfoggio della propria "dignità", la caratteristica per eccellenza di un buon maggiordomo, il quale, a quanto pare, deve annullare la propria personalità e le proprie emozioni perfino di fronte a eventi estremi e vivere in funzione delle volontà di "sua signoria", chiunque sia.
In definitiva non mi pare ci siano eventi (o anche personaggi, se è per questo) degni di nota.

A proposito dei personaggi, io non ho capito molto. Innanzi tutto non vengono descritti: non ho idea di che aspetto abbia la maggior parte di loro. Il protagonista, Stevens, parla, agisce, si comporta e si autovaluta solo come maggiordomo, non come persona, e quindi non emerge quasi nulla della sua personalità, ma solo della sua professionalità.
Un po' meglio caratterizzata è Miss Kenton, la quale invece non permette al lavoro di prendere il sopravvento sulle sue idee, o almeno tenta di impedirlo. Tutti gli altri... No, un attimo, chi sono gli altri? Ah, ecco, ci sono le "loro signorie", che ovviamente sono persone nobili e ricche, da un punto di vista sia materiale che spirituale, e hanno sempre ragione. Come potrebbe essere altrimenti?

Anche lo stile è, se così posso definirlo, da maggiordomo. Il che significa formale, elegante, molto noioso e privo di qualsiasi ironia, perfino quando il povero Stevens si sforza di farcela entrare. Mi sono annoiata e distratta fin troppo spesso, a volte mi risvegliavo all'improvviso chiedendomi di chi si stesse parlando, un po' come mi è capitato con Al Paradiso delle Signore.
In definitiva non ho capito perché tutti sembrino trovare bellissimo questo romanzo. Che cosa sarebbe bellissimo? Non c'è trama, i personaggi sono quelli che sono, lo stile non è niente di particolare, e poi a chi importa ormai di come devono essere i maggiordomi? Io ho trovato il tutto solo molto pesante.
Si dice in giro che anche il film sia meraviglioso; forse con quello avrei più fortuna.

UNA VITA COME TANTE – Hanya Yanagihara

Titolo: Una vita come tante
Autore: Hanya Yanagihara
Traduttore: L. Briasco
Copertina flessibile: 1094 pagine
Editore: Sellerio Editore (2016)
Prezzo: 20,90 €

Una vita come tante di Hanya Yanagihara è un romanzo straziante, che mi ha toccato tantissimo, ma è brutale, pieno di violenza e di dolore, non è un libro per tutti.
A dispetto del titolo, racconta una vita straordinaria, nel bene e nel male. Una vita lunga – o almeno lungamente raccontata – da cui emerge soprattutto l'impossibilità del cambiamento. Questo è il messaggio che mi è arrivato: le persone non cambiano. Non possono, in alcun modo.
Riassumere la trama sarebbe uno scempio, è un libro di cui non si può davvero parlare con chi non l'ha letto (e apprezzato). I temi sono innumerevoli. La protagonista indiscussa è la solitudine: puoi avere tutti gli amici che vuoi, ma alla fin fine sei sempre solo. Tra gli altri – per quanto asettico possa essere un elenco di questo tipo – troviamo: arte, identità, autolesionismo, depressione, disabilità in generale, autostima, fiducia e tradimento, perdono, legge e giustizia, abusi (di sostanze e di persone) e dipendenze (anche emotive), il lutto, la fine delle cose, il denaro e il suo peso nel determinare le possibilità di un individuo, la famiglia e il modo in cui plasma le persone, l'orrore della vita.
E poi l'amore: quanto è difficile amare e aiutare una persona che non ama se stessa; ma anche quanto è difficile lasciarsi amare. Il modo in cui tutti gli altri personaggi amano Jude e se ne prendono cura è commovente.

I personaggi emergono a poco a poco ma, quando lo fanno, lo fanno benissimo. Sono meravigliosi, sono mondi pieni di dettagli, di storie, sfumature, pensieri, emozioni, reazioni, convinzioni. Sono persone vere, complesse e multidimensionali.
Primo fra tutti Jude, protagonista riservato e schivo, in preda a una paura che non lo lascia mai. Jude si disprezza in un modo che spezza il cuore, si porta dietro un peso enorme che compromette la qualità di ogni attimo della sua vita. È un personaggio che ho sentito vicino, ho pianto amaramente per il suo dolore e ho provato una felicità immensa per la sua gioia.
Ho provato tenerezza e compassione anche per Willem, bellissimo e umile, dall'autostima paradossalmente bassa. Willem, l'amico di cui tutti avremmo bisogno e che nessuno ha, perché ovviamente non esiste.
Ho provato odio per JB, presuntuoso e viziato, con manie di grandezza. Tutti i personaggi hanno qualcosa di bello dentro, sono profondi e tristi. Tutti tranne JB. (E ovviamente quelli spregevoli, abusanti e inclassificabili.)
Ho provato solidarietà e pena per Harold e Andy, mi sono sentita impotente insieme a loro. Mi sono scoraggiata un po' per tutti, che tra l'altro non fanno una bella fine. Non mi capita spesso di provare tutte queste cose per tanti personaggi diversi.

Lo stile dell'autrice è chiaro e scorrevole, non è banale e coinvolge parecchio, ti assorbe, anche se alla prima lettura alcuni salti temporali mi avevano messo in difficoltà, così come i cambiamenti improvvisi dei tempi verbali e della voce narrante.
I dialoghi sono buoni, all'inizio forse troppo seri, non c'è traccia di umorismo. Più avanti, qualche battuta divertente non manca, ma nel complesso c'è ben poco da ridere.
Le descrizioni sono ottime, minuziosamente dettagliate, molto concrete. L'autrice fa uso di similitudini molto efficaci, a volte bellissime, altre disgustose. In alcuni momenti avrei voluto che non fossero così buone, viste le cose che succedono.
Una vita come tante è una lettura da cui si esce provati. Ho pianto tutto il tempo, ho provato molto dolore. Un dolore sordo nella prima metà, che diventa acuto, quasi insopportabile a tratti, nella seconda. Non è un libro che consiglierei a chiunque, ma a me ha dato tanto e la seconda lettura mi ha distrutto anche più della prima. So che, nonostante la mole, lo rileggerò ancora.

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LA RAGAZZA DELLO SPUTNIK – Haruki Murakami

Voto: 2,5/5

Una sorta di triangolo amoroso, ma – ahimè – resta tutto platonico. Nonostante questo, tutta la narrazione è costellata di pensieri sessuali fuori luogo. La voce narrante è quella di un ragazzo di cui non si conosce il nome, il quale racconta più che altro le vicende della sua amica Sumire, di cui è innamorato. Lei però, ovviamente, si innamora di un'altra persona, ma a dire la verità mi è parso che niente di tutto questo fosse rilevante ai fini della storia. Forse non l'ho capito, in che cosa consista la storia. In compenso ho trovato la parte finale completamente superflua, e in più tutto resta vago, non ci sono risposte chiare. Come avrà già capito chi ha letto la recensione della Strana biblioteca, io dovrei smettere di leggere Murakami.

Sumire è un bel personaggio, ben caratterizzato, abbastanza interessante e piacevole da seguire, mentre gli altri due protagonisti, cioè il narratore e Myu, li ho trovati un po' piatti, noiosi.
Il narratore sembra raccontare episodi della sua vita che non c'entrano niente con tutto il resto, tanto per occupare spazio. La dinamica del suo rapporto con Sumire è quella tipica della friendzone: lui sopporta comportamenti assurdi perché è innamorato; lei ne approfitta anche se in teoria gli vuole bene.
A dire il vero, Myu ha anche lei una storia interessante, che però viene fuori solamente nella parte finale del romanzo. Per il resto è molto noiosa: viene solo ribadito continuamente quanto è bella. Alla fine si viene a scoprire che è una donna spezzata, il che avrebbe potuto renderla un personaggio molto migliore, se solo questa rottura fosse stata manifesta e non solo detta.

Lo stile è il solito di Murakami. Lui si crede poetico e filosofico, ma alla fin fine quello che mi raggiunge è sempre e solo la sua fissazione per il sesso e, in questo libro in particolare, il suo feticismo per i peli pubici. È uno stile abbastanza scorrevole, con dialoghi molto calmi e lenti, perfino inutili. Non è certo difficile da leggere, ma non mi coinvolge. Al contrario, lo definirei soporifero.
Ho letto questo romanzo molti anni fa, e ammetto che alla prima lettura mi aveva colpito, appunto perché mi era piaciuta la protagonista – forse anche perché ai tempi mi ero rivista in lei – e in più la storia di Myu sulla ruota panoramica mi aveva messo i brividi. Me lo ricordavo anche un po' diverso da tutti gli altri libri dell'autore e invece, rileggendolo, ci ho trovato tutti quegli aspetti che non sopporto di lui: forse il mio è un pregiudizio, avrò cominciato a odiare Murakami per partito preso. Ho la sensazione che si limiti a dire le cose, senza trasmettere nulla. In questo caso ho pensato addirittura di abbandonare a poche pagine dalla fine. Non l'ho fatto, ma se così fosse stato non avrei perso niente.
Mi dispiace, perché in realtà credo che questo libro meriti. Ma forse andrebbe letto solo nell'adolescenza o poco più in là.

IL TEMPO DELL'ATTESA – Elizabeth Jane Howard

Dopo Gli anni della leggerezza, proseguono le vicende di questa numerosissima famigliola, con la guerra che incombe e tutto ciò che comporta. Questo secondo volume si concentra soprattutto sulle ragazze, Louise, Polly e Clary, che erano state per me tra i personaggi più interessanti nel primo (anche se Louise non mi piaceva, e continua a non piacermi). Disgraziatamente io ho abbandonato il libro al 20% circa, quindi non sono in grado di dire molto altro sulla trama o sui temi, a parte il fatto che anche qui non succede molto. Ho avuto però l'impressione che qui si presti più attenzione ai singoli personaggi che non alle dinamiche familiari.

A proposito dei singoli personaggi, li ho trovati in questo volume (fin dove ho letto, almeno) molto più spenti che nel precedente. Perfino i miei preferiti – Clary in primis – mi sono sembrati lontani, come delle brutte copie degli originali. E anche i bambini, che negli Anni della leggerezza erano stati spesso divertenti, adesso non lo sono più, anzi, direi che sono alquanto insopportabili. Almeno Neville. Gli adulti, giustamente assorbiti dal pensiero della guerra, sono ancora più noiosi di prima.
L'unica che mi è piaciuta più che nel primo è Zoë. Chi l'avrebbe mai detto. Ho invece cominciato a odiare Raymond – che nel primo libro non mi era dispiaciuto – per il suo rapporto col figlio Christopher, o meglio per il suo disprezzo nei confronti del figlio. Questo perché anche Christopher, nel primo libro, mi era piaciuto. Ma del resto Raymond è padre di Angela, altro personaggio odiosissimo già dal primo libro. Insomma, tutto quello che posso fare è sputare odio sui personaggi, e mi rendo conto che questo non rende una "recensione" molto costruttiva.

Lo stile dell'autrice mi piace, la lettura scorre che è un piacere ma i contenuti non riescono a coinvolgermi, perdo il filo del discorso e non capisco più di che cosa o di chi si sta parlando, come credo di aver detto anche per il primo. Non si tratta nemmeno di noia, è proprio un mio personale disinteresse nei confronti di questi personaggi. Non mi sento per niente curiosa di sapere che cosa ne sarà di loro. E del resto, la mia unica curiosità nel primo volume non era stata soddisfatta, quindi forse ci ho semplicemente rinunciato.
Penso che dovrei riprovarci in un altro momento. Per ora mi dedicherò a qualcos'altro.

NON LASCIARMI – Kazuo Ishiguro

Voto 4/5

Hailsham è un collegio che accoglie bambini senza famiglia, il cui destino all'inizio non è molto chiaro nemmeno a loro e che, per motivi che verranno fuori pian piano, vengono visti e trattati come diversi e perfino disgustosi. Non lasciarmi è il racconto di un'infanzia e una gioventù come tante, di un'adolescenza qualsiasi, con relativa scoperta del sesso e tutto il resto, ma vissute diversamente a causa di conoscenze, o anche solo sospetti, che gettano una luce anomala su tutto il resto. L'oggetto della narrazione sono delle vite tristissime e destinate alla perdita, che è come dire vite umane e basta, ma con una minore dose di speranza. Anche le dinamiche sono quelle comuni: amicizia, amore, rivalità, potere. L'amore in particolare, come anche l'arte, ha un ruolo particolarmente importante e strano in questa storia.

La voce narrante è quella di Kathy, un personaggio che non saprei come definire, perché la sua personalità non è chiara, ma forse l'aggettivo che sceglierei è debole. Kathy è debole perché sembra cercare continuamente l'approvazione dell'amica stronza – Ruth, che la tratta malissimo – e perché sopporta un sacco di cattiverie, dall'infanzia fino all'età adulta, e sembra offendersi solo per stupidaggini, mentre giustifica le coltellate più crudeli. Nonostante gli altri vengano presentati come suoi amici, in realtà Kathy è sola, per tutto il tempo.
Ruth è la leader stronza e carismatica che non manca nell'infanzia di nessuno, una persona orribile ma caratterizzata benissimo. Forse, anzi, è l'unico personaggio che ho trovato ben caratterizzato nel suo essere così meschina. E tale rimane anche da adulta: giudica velatamente, insinua, fa in modo che gli altri si sentano inferiori e sbagliati, mette le persone che la circondano l'una contro l'altra, e in tutto questo Kathy continua a giustificarla, a concederle il beneficio del dubbio, e questo è ciò che più di tutto mi ha infastidito in questo romanzo, peraltro bellissimo. Solo alla fine Ruth farà finalmente qualcosa di buono, a mo' di conversione in limine mortis.
Tommy, infine, è il personaggio più tenero. Un po' suscita compassione, perché è ingenuo e fragile, viene bullizzato praticamente per tutta la vita – prima dai compagni di scuola, poi dalla fidanzata – e nonostante tutto resta una persona fiduciosa.
Ciò che fa orrore, in tutto questo, è l'atteggiamento dei personaggi secondari, soprattutto i tutori di Hailsham, verso i quali non si capisce se è lecito provare simpatia e comprensione. (Non lo è, ndr.) Solo Miss Lucy si distingue, e ovviamente ne paga le conseguenze.
In ogni caso, come ho detto, ho trovato ben caratterizzata soltanto Ruth. Ho avuto difficoltà a immaginare gli altri personaggi, tranne un paio di tutrici tra cui, appunto, Miss Lucy. Tutti gli altri, nella mia immaginazione, sono esseri indistinti e senza volto.

La prosa, in compenso, è scorrevole e piacevole nonostante i salti temporali, a mio parere superflui. Kathy racconta il tutto come ricordi più o meno lontani, e questo magari giustifica i salti; inoltre i ricordi sono per forza di cose discordanti, e questo contribuisce a rendere il tutto più realistico. In definitiva Non lasciarmi è davvero un bel romanzo, ma devo dire che la mia è stata una rilettura, dopo nove anni dall'ultima. E devo dire anche che la qualità della lettura è stata migliorata dal fatto che sapevo già. La prima volta, infatti, le rivelazioni più importanti mi avevano più che altro infastidito, rendendomi la lettura deludente.

Non lasciarmi è una tragedia, ma una tragedia in sordina: mi ha intristito ma non mi ha fatto disperare, anche perché, ahimè, non sono riuscita ad affezionarmi a nessun personaggio.

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IERI – Agota Kristof

Ieri - Agota Kristof
Titolo: Ieri
Autore: Agota Kristof
Traduttore: M. Lodoli
Copertina flessibile: 106 pagine
Editore: Einaudi (2016)
Prezzo: 7,50 €

Riassumere Ieri di Agota Kristof è difficile. Qualunque cosa si possa dire non sarebbe mai rappresentativa. Ma io ve lo dico lo stesso: è una storia d'amore. C'è un'attesa commovente, straziante, perché non stiamo forse tutti aspettando qualcosa? In questo caso quel qualcosa arriva ma, trattandosi della Kristof, non aspettatevi un amore normale. È un amore inquietante, fatto di stalking, incesto, discriminazione. È un amore sbagliato e "brutto", egoista e possessivo, che vuole tutto e non dà che dolore, un amore che consiste nel farsi del male a vicenda.
I temi sono molto allegri: la routine, la disperazione, il vuoto della vita, e appunto questo amore che da una parte è visto come unica salvezza, dall'altro è ossessivo e malato: fa tutto meno che salvare qualcuno.
Il finale, poi, è a dir poco terrificante. È una fine come si deve perché è la fine di tutto: delle illusioni, dei sogni, della vita. È la morte dell'anima. Forse un suicidio collettivo di tutti i personaggi sarebbe apparso meno infelice.

Parliamo dei personaggi. Il protagonista è Tobias, che poi si chiama anche Sandor, e che è completamente pazzo: una specie di stalker molesto, non solo per i suoi comportamenti più manifesti, ma anche per dettagli più sottili, come la frequenza con cui ripete il nome di Line mentre le parla.
Line mi era rimasta nel cuore già dal secondo racconto di Dove sei Mathias?, ma sarà poi la stessa? In questo romanzo non mi è piaciuta come nel racconto, ahimè. L'ho trovata snob, banale e stupida, a quanto pare il tipo preferito dagli stalker (almeno nella letteratura). Ma è giusto così perché, oltre alla trama, anche i personaggi devono essere tragici, altrimenti che gusto c'è.
Le descrizioni sono perfette e impietose – dal punto di vista di Tobias, la voce narrante – e la caratterizzazione consiste soprattutto nella resa del disagio di tutti loro, che è palpabile.

Lo stile di Agota Kristof mi piace tantissimo. Ha un suo modo particolare di usare le parole, e in questo caso mi ha rapita sin dalle prime. La scrittura è fredda, distaccata, dura, e insieme meravigliosa e delirante. Trasmette il vuoto orrendo della vita, fa paura. Racconta cose serie e bruttissime con un tono assolutamente neutro, senza drammaticità, e il messaggio arriva diretto e brutale. Crea sgomento.
Attraverso i dialoghi vengono fuori le personalità dei personaggi, dal modo in cui reagiscono, parlano, rispondono.
Si dice che un bravo scrittore non debba raccontare fatti ma mostrarli. Bene, Agota Kristof è un'ottima scrittrice.

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AMOK – Stefan Zweig

Voto: 4/5

Medico apparentemente asociale racconta ad altro tizio una sua recente esperienza, che l'ha evidentemente sconvolto: si è pseudo innamorato di una donna (o almeno del suo corpo e del suo modo di fare) e ha praticamente rovinato la vita a lei e a sé stesso. La vicenda, a sentire lui, ruota intorno all'amok, questa sorta di follia animale a cui non si può sfuggire in alcun modo. O, se vogliamo, nel caso specifico, un'ossessione che accende e guida ogni comportamento del soggetto invasato.
Quindi ossessione, "amore" (passione, sesso, desiderio, bramosia, quello che volete), follia. E onore.

Personalmente, questo protagonista non mi è piaciuto granché. L'ho trovato antipatico, fastidioso, eccessivamente orgoglioso, bramoso di potere: vuole a tutti i costi sottomettere la persona che si trova di fronte ma, al rifiuto di quella, si sottomette lui stesso cinque minuti dopo. Un maniaco, per l'appunto invasato da quello che lui chiama amok, ma che io ho visto solo come una specie di perversione sessuale. Avrei voluto mutilarlo del pene, 'sto porco.
Vero protagonista del racconto dovrebbe essere l'amok, ma dal mio punto di vista è l'uomo. Un uomo peraltro abbastanza comune, che si nasconde dietro l'amok per non dire chiaramente «faccio schifo, sono un normalissimo maniaco che si lascia guidare dal proprio organo sessuale».
Il narratore/ascoltatore, invece, non ha una vera personalità. Sta lì solo per farsi raccontare la vicenda, sulla quale non esprime nemmeno opinioni. Alla fine ho avuto un sospetto che, se fondato, l'avrebbe reso più interessante. Ma non era fondato.

Detto ciò, voglio chiarire che – fin qui non si direbbe – il libro mi è piaciuto e mi ha coinvolto tantissimo. Ho odiato il protagonista, ma amo Zweig e il modo in cui scrive. Ho scoperto da poco questo autore e trovo il suo stile meraviglioso.
Le descrizioni sono accurate, il ritmo incalzante, e infatti ho divorato il racconto in pochissimo tempo. Così è stato con tutti i libri che ho letto di Zweig: in nessun caso ho trovato la trama particolarmente coinvolgente, o i personaggi interessanti, anche se comunque le loro emozioni – che sono poi le emozioni di ogni essere umano – sono rese con una maestria propria di ben pochi autori; ma lo stile è così perfetto che viene voglia di leggerne ancora, e ancora, fosse anche solo per gustarsi le parole che si inseguono in maniera così sapiente.

Quindi tanto di cappello a Zweig (e al traduttore, che al momento non sono in grado di citare perché, ahimè, non mi preoccupo mai nemmeno di leggerne il nome).

LA STRANA BIBLIOTECA – Haruki Murakami

Voto: 3/5

Ragazzino va in biblioteca a restituire dei libri, viene spedito nei sotterranei dove scopre delle cose strane, compreso il suo destino, e conosce personaggi altrettanto strani che non si capisce se esistano davvero oppure no.

Ora, il ragazzino sembra un po' scemo a tratti. Racconta cose spaventose come se fossero solo fastidiose ma nella norma, assiste alla violenza con un atteggiamento del tipo "che noia, voglio tornare a casa". Ha delle preoccupazioni ben poco realistiche, perché si ritrova in una situazione assurda, che dovrebbe come minimo sconvolgerlo, gli viene rivelata la brutta fine che farà, e lui pensa a sua madre che si deprimerà non vedendolo tornare puntuale per la cena, oppure alle scarpe che non riuscirà a recuperare.
Gli altri personaggi sono altrettanto strani, ma immagino sia una cosa voluta, anche perché – presumo – vogliono rappresentare cose diverse.

Lo stile è a volte intenzionalmente ripetitivo, cosa che a me non dispiace ma ad altri potrebbe risultare fastidioso.
Non saprei come classificare questo racconto. Inizialmente mi pareva volesse essere una specie di horror, ma non lo è. In molti definiscono le storie di Murakami "oniriche". È un aggettivo che non mi piace e che non uso abitualmente, ma credo che in questo caso sia il più adatto. Tutto il racconto sembra un sogno, le descrizioni sono abbastanza vivide da provocare disgusto ma anche confusione, talvolta. Sembra che le immagini si sovrappongano e si mescolino e, se devo dire la verità, il senso di tutto questo io non l'ho capito.

La lettura è stata interessante, ma di che si tratta esattamente? Vuole essere un'allegoria, qualcosa di metaforico? Io davvero non l'ho capito, sarebbero gradite delucidazioni.